
Il 7 ottobre 2025 segna una data che resterà impressa nella storia del diritto militare e della tutela della salute del personale in divisa. Con le sentenze nn. 12, 13, 14 e 15, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha pronunciato un verdetto che, a pieno titolo, può essere definito storico: viene riconosciuto, in modo inequivocabile, il “rischio professionale specifico” per i militari esposti all’uranio impoverito e alle nanoparticelle di metalli pesanti, durante missioni all’estero o in servizio nei poligoni di tiro.
È una decisione che giunge dopo decenni di silenzio, rimpalli burocratici e battaglie giudiziarie intraprese da chi, tornato dai teatri operativi, ha dovuto affrontare un nemico ancora più insidioso: malattie devastanti, spesso letali, e l’invisibile muro dell’indifferenza istituzionale. Secondo dati consolidati, sono oltre 400 i militari deceduti e circa 4.000 quelli colpiti da gravi patologie riconducibili a tale esposizione. Eppure, fino a oggi, la dimostrazione del nesso causale tra la malattia e l’esposizione all’uranio impoverito era interamente a carico del militare o dei suoi familiari, rendendo il riconoscimento della causa di servizio una corsa ad ostacoli, spesso senza esito.
La svolta operata dal Consiglio di Stato è profonda e altamente significativa: ora spetta all’amministrazione dimostrare l’assenza del legame tra la malattia e il servizio svolto. Una inversione dell’onere della prova che rovescia anni di prassi inique e che poggia su un principio tanto elementare quanto spesso disatteso: in caso di dubbio, si protegge chi ha servito lo Stato, non il contrario.
Questa pronuncia non è soltanto un avanzamento giurisprudenziale. È, prima di tutto, un atto di riconoscimento morale e istituzionale verso uomini e donne che, nell’adempimento del proprio dovere, hanno subito un’esposizione silenziosa ma letale. L’uranio impoverito non esplode solo nei teatri di guerra: continua a colpire nel tempo, attraverso malattie che si manifestano anche dopo anni dal rientro, minando la salute e la speranza di chi ha servito con lealtà.
Il Consiglio di Stato, pur non entrando nel merito delle controversie scientifiche, che rimangono aperte, accoglie il principio di precauzione e stabilisce che le incertezze non possono giustificare l’inerzia. È una posizione coraggiosa, che afferma un concetto chiave: il dubbio scientifico non può essere usato come alibi per negare tutela.
In questo contesto, il ruolo del S.I.A.M.O. e delle organizzazioni rappresentative diventa cruciale. Non solo come portavoce del disagio, ma come strumento concreto di orientamento, sostegno e pressione civile. Per anni, il sindacato ha affiancato i militari e le loro famiglie in percorsi amministrativi e giudiziari spesso estenuanti. La sentenza rafforza il legame fiduciario con gli iscritti e rafforza la responsabilità collettiva di non lasciare nessuno da solo, né nella malattia né nella burocrazia.
Questa vittoria giuridica è indiscutibile, ma non può essere fine a se stessa. Porta con sé interrogativi e urgenze operative che non possono essere ignorate:
Quali strumenti amministrativi e normativi servono per tradurre il principio giuridico in prassi omogenee ed efficaci?
Come prevenire che simili tragedie si ripetano, assicurando ambienti di lavoro sicuri e valutazioni di rischio aggiornate per i militari?
È su questi interrogativi che si misura oggi la serietà dell’impegno delle istituzioni. Una sentenza, per quanto forte, è solo l’inizio di un percorso che dovrà tradursi in atti concreti, fondi adeguati, e soprattutto in un cambio di paradigma culturale: la salute di chi serve lo Stato non è una variabile negoziabile.
Il pronunciamento del Consiglio di Stato rappresenta una pietra miliare nel riconoscimento del diritto alla salute dei militari. È un atto di giustizia atteso da anni, ma anche un invito a non voltarsi dall’altra parte. Non si tratta solo di riparare un torto, ma di restituire dignità, credibilità e fiducia a chi ha pagato un prezzo altissimo nel silenzio.
L’uranio impoverito, con la sua invisibilità tossica, ha colpito più delle armi. Ma oggi, almeno sul piano del diritto, non è più invisibile.
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